Giocando con il Tango

“Bene culturale immateriale”. Così nel 2009 l’UNESCO ha definito il tango argentino, descrivendolo come un prezioso scrigno di valori e tradizioni:  “diversità culturale”, “dialogo”,  “essenza di una comunità” sono le parole ricorrenti nella motivazione di tale prestigioso titolo.

Moltissime le pagine scritte sul tango, sulla sua storia, sulla sua “filosofia”… E vale la pena citare il nome di un grande che ha saputo definirlo meglio di chiunque altro. Sto parlando di Jorge Luis Borges. Vorrei subito precisare che in rete circola una frase che alcuni siti attribuiscono erroneamente a lui: “Il tango è un pensiero triste che si balla”. In realtà Borges prende le distanze da questa definizione, tutt’al più la ritiene plausibile per quello che poi divenne il tango una volta trapiantato in Europa negli anni Trenta del secolo scorso, quando i giovani rampolli di famiglie argentine in vista ne fecero conoscere i passi e la musica a Parigi, Londra, Roma….

Ma all’origine, e parliamo dell’ultimo ventennio dell’Ottocento, il tango, come dice Borges, è ballo di “casas malas” (bordelli), sangue e coltelli, nel contesto di periferie malfamate o zone di confine tra comunità eterogenee (immigrati spagnoli, italiani, afroamericani,…), dove gli uomini sono soliti riunirsi per trascorrere il tempo libero nei locali, tra una bevuta, un giro di carte e qualche denaro alla prostituta di turno. Un’origine che per molti aspetti avvicina la nascita del tango a quella del jazz qualche anno dopo.

Ora, al di là di queste radici e del sacrosanto richiamo culturale, che cos’è o potrebbe rappresentare il tango oggi, per noi, popolo borghese-mediatico, alla ricerca di più concrete forme di aggregazione e socialità, o semplicemente di un’attività che faccia bene al corpo e allo spirito? Ovviamente cercherò molto umilmente di tracciarne un profilo, sapendo che la mia è la prospettiva di una quasi neofita.

Dirò, per esempio, che per chi come me ama questo “ballo” (e mi accorgo di quanto sia riduttivo definirlo solo così), un riconoscimento come quello citato all’inizio (e forse ancor di più la passione per il tango da parte di scrittori del calibro di Borges), non può che inorgoglire e rafforzare la motivazione ad imparare, con piacere e talvolta anche fatica, le sue regole, i suoi passi, il suo ritmo… Soprattutto la sua logica: mi ha sempre colpito il gioco sottile che regola l’abbraccio tra “dama” e “cavaliere”, in particolare che sia l’uomo a guidare i passi; anche se la donna, è bene precisarlo, non è affatto passiva né deve appesantirsi o aggrapparsi all’uomo, ma lasciarsi guidare con leggerezza e fiducia, in un gioco di movimenti speculari e fantasiosi. Perché il bello del tango è anche questo: improvvisazione. Non ci sono schemi predefiniti; una volta imparati i passi di base, si può ballare scegliendo volta per volta la combinazione che piace e che si adatta meglio alla musica, al contesto, allo spazio… Un altro elemento che rende bello il tango è anche lo scambio di partner: non mi si fraintenda, parlo della buona pratica di ballare con persone diverse, perché è dal confronto  che apprendiamo come muoverci, cosa migliorare, cosa evitare, come in un ampio gioco di specchi. Ed è per questo che è piacevole anche solo guardare delle coppie ballare: la loro intesa trasmette un senso di benessere e i loro passi sono una fucina di apprendimento non solo tecnico.

Come si può notare, ho usato più volte la parola “gioco”, e non è un caso: checché ne pensino i fanatici integralisti (anche qui ce ne sono) che credono di trovare nel tango la soluzione a tutti i loro problemi esistenziali (in particolare affettivi), come se “il ballo dell’abbraccio” potesse consolare o colmare il vuoto di una relazione finita male (oppure malriuscita, oppure addirittura assente), per non parlare di quelli che vedono il tango come un’occasione di “acchiappo”, come si dice dalle nostre parti, se non  addirittura una scusa per palpeggiare in stile “rat-man”; o ancora un’opportunità per lanciare equivoci segnali seduttivi che, inconsciamente, ma più spesso volutamente, illudono il malcapitato di turno, a cui subito viene appioppata la nomea di quello che “ci ha provato ma gli è andata buca”, mentre la “dama” si pavoneggia sia di essere oggetto desiderato sia di “non averla data”…(mi rendo conto che ho parlato di una lei un po’ str***a, ma si verifica anche il caso inverso, anche se più raramente).

Ebbene, il tango non è tutto questo. E forse la categoria che più gli si addice è proprio quella di “gioco”, cioè di un momento ludico con le sue regole (come tutti i giochi che si rispettino), di temporanea rottura con la realtà, un’attività gioiosa, liberante, fine a se stessa.

Sul gioco è stato scritto moltissimo: da Aristotele a Kant a Freud…le teorie si sprecano, ma tutte più o meno concordano su questo aspetto di gratuità e temporaneità. Il sociologo Roger Caillois elenca quelle che sono le caratteristiche di fondo del “gioco”: libertà, temporaneità, incertezza, improduttività, regola, finzione. Se ci riflettiamo, si tratta di parole-chiave che possiamo ritrovare anche nella pratica del tango e che sono la sua grande ricchezza: si balla per “giocare”, per vivere cinque o dieci minuti in un tempo sospeso dove uomo e donna finalmente comunicano, in silenzio, senza parlare (guai a parlare: si rischia di sbagliare i passi!), solo con la percezione reciproca dei loro corpi, della musica e del loro spazio. Un miracolo, una magia, che come ogni miracolo e magia dura il tempo che dura, ed è giusto e necessario che sia così, perché la realtà, la quotidianità, è un’altra: non banale, anzi, né prosaica, ma complessa e difficile, dove comunicare veramente è un’impresa il più delle volte impossibile, dolorosa, deludente, ma proprio per questo affascinante, come ogni sfida che si rispetti.

Insomma, posto in quest’ottica, il tango, per noi cittadini “globali” del XXI secolo, è (o dovrebbe essere) una sorta di carnevale della realtà, una consapevole illusione di comunicazione perfetta che fa bene al corpo e allo spirito. Per dirla con le parole di un caro amico, “tanguero” di tutto rispetto: “…una relazione che è lì e solo lì, né altrove né in un altro tempo”. Finito il gioco, ci si saluta, si ringrazia l’altro e si torna, più carichi e forti, come dopo un allenamento, alla vita reale.

A qualcuno potrebbe, poi, venire la tentazione di paragonare o, peggio, confondere il tango con il rapporto sessuale, nell’ottica di una visione ludica che accomunerebbe entrambi. In questa sede si ricorderà che certamente anche la sessualità ha una sua, imprescindibile, valenza giocosa, ma è anche e soprattutto altro… E per approfondire questa tematica, rimandiamo a un altro, chissà, futuro articolo…

Rosa Fontana

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